L’intelligenza artificiale è uno tsunami che già in molti definiscono inarrestabile.
Sta già cambiando drasticamente il mondo attorno a noi e lo farà a ritmi sempre più importanti. Cambia e cambierà anche come concepiamo l’arte.
Così come lo smartphone ha dato la possibilità di scattare foto anche a chi non sa nulla di fotografia, allo stesso modo l’intelligenza artificiale farà generare canzoni a chi non sa nulla di musica né sa suonare, farà generare film a chi non sa nulla di cinema né usare una videocamera, e così via.
Non solo, le tempistiche e il numero di persone coinvolte nel processo di creazione si riducono drasticamente. Quello che prima richiedeva mesi di lavoro e un team di specialisti, oggi può essere realizzato in poche ore da un singolo individuo, semplicemente chiedendo qualcosa a una IA che farà il lavoro al posto nostro.
Le reazioni davanti a questo scenario sono molte e variegate. Io vorrei soffermarmi su una in particolare e ragionarci su.
Premetto che sono uno sviluppatore informatico ma sono anche quello che si potrebbe definire un artista: negli anni mi sono cimentato, sia per lavoro che per passione, con molte forme d’arte come la musica, la fotografia, il cinema e la scrittura. Ritengo comunque che i ragionamenti che propongo vadano al di là di chi sono, cosa faccio e della mia specifica esperienza.
Tornando all’IA, quindi, c’è chi pensa che questa tecnologia e i suoi cambiamenti saranno, appunto, inarrestabili e che l’unica salvezza da questo tsunami, per non sparire, per continuare ad avere un peso e un senso a livello artistico ma anche lavorativo, sia puntare sulle idee, sulla sensibilità, riuscire a dare il proprio contributo umano, di esperienza, cioè quello che una macchina non può apportare, perché in fondo sono le idee che contano e non come le realizziamo. Insomma, se un’idea artistica è buona, non conta come la realizzi.
Conta cosa fai, non come.
E io mi chiedo: come siamo arrivati a questo? In che modo siamo riusciti a disinteressarci di come facciamo le cose?
Il come si fa qualcosa è tanto importante quanto il cosa si fa, e aggiungerei anche perché lo si fa. Questo vale in generale, ma ancora di più nell’arte.
Sia ben inteso, io non sono un sostenitore dell’”espertismo”, cioè non penso che se non hai studiato allora certamente non hai nulla da dire di interessante. Anzi, credo che non di rado lo studio e la cultura rappresentino delle barriere alla creatività e possano creare dei paraocchi.
Non credo nemmeno che qualcosa non abbia valore se non è difficile da compiere, e non sono nemmeno schiavo del culto del sacrificio. No, sono tutte cose estremamente lontane da me.
Anzi, a prescindere, ritengo una cosa positiva se più persone possono creare arte.
Infatti qui sto parlando di altro. Parlo dell’importanza del “come” si fa qualcosa.
Il modo in cui si fa qualcosa non è neutrale, così come non lo è la tecnologia con cui lo si fa. I mezzi che usiamo ci formano come artisti e come fruitori dell’arte. In generale, il come e il cosa sono parte di un tutto che non può essere scisso, e questo legame nell’arte è ancora più profondo.
Quindi l’intelligenza artificiale, e la tecnologia in generale, ci sta privando del come facciamo le cose. Puntiamo a un futuro in cui tra l’idea artistica che abbiamo in testa e la sua manifestazione possa esserci solo un click. Il percorso, soprattutto fisico, che mette a contatto l’artista con le cose vere di una data forma d’arte si sta accorciando e a un certo punto sarà completamente sparito. È tutto sempre più mediato, effimero, volatile, veloce e per questo, mi spiace dirlo, anche finto.
L’arte ha bisogno della fisicità del proprio corpo che interagisce con degli strumenti sia nella fase di creazione che di fruizione.
L’arte non può prescindere dal come viene creata così come il fruirne non può prescindere dal come la si fruisce. Ascoltare 10 secondi di una canzone in metro, dagli speaker di un cellulare, non è come ascoltare un intero brano con un impianto stereo o magari a un concerto.
E lo vediamo chiaramente attorno a noi come la tecnologia ha stravolto il modo in cui fruiamo, ad esempio, della musica: ai concerti si vedono distese di schermi illuminati tenuti in mano da persone ferme, che non sono davvero lì. L’esperienza è stata sostituita dal bisogno di documentarla attraverso uno strumento.
Stiamo sempre più dimenticando quello che conta davvero.
Mi rendo conto che c’è bisogno di avere uno sguardo più ampio possibile e mente aperta.
Prendiamo per esempio la fotografia (ambito che mi è particolarmente familiare): riesco a mettere nella giusta prospettiva il fatto che chi usa una macchina fotografica digitale oggi possa tendere a sminuire la fotografia fatta con uno smartphone; così come chi usava una macchina a pellicola aveva degli argomenti per sminuire la fotografia fatta con una macchina digitale; e così via, fino a chi la pellicola doveva crearsela da solo e per fare il fotografo dovevi essere anche un chimico… messa in questa prospettiva potremmo dire che nessuno ha “ragione”, cioè non esiste una forma pura di fotografia, ma ogni epoca ha avuto i propri mezzi con cui si facevano fotografie e non c’è un momento in cui si può dire “ecco, da qui in poi non è più fotografia”.
E sono d’accordo. Io infatti non parlo di purezza. Non sono così miope da pensare che l’epoca della “vera” arte, con la giusta dose di tecnologia era, guarda caso, proprio la mia epoca, gli strumenti che io ho usato, il modo in cui io ho fatto fotografia, dimostrando quindi che si tratta della visione di qualcuno che semplicemente non capisce i tempi che cambiano e rimpiange un sistema di cose con cui è cresciuto, che quindi trova comodo e sensato mentre ne non accetta il cambiamento.
No. Magari fosse questo. Mi piacerebbe essere così miope.
Riconosco perfettamente questo problema e sono perfettamente conscio che non esista un prima e un dopo, un confine, non c’è un punto in cui la tecnologia ha ucciso l’arte e, la fotografia in questo esempio, abbia smesso di essere tale, ma si tratta piuttosto di una infinita “scala di grigi” in evoluzione.
Ok, ci siamo. Ma non possiamo, in virtù dell’accettazione dell’esistenza di questa “scala di grigi”, non vedere a cosa questo stia portando. Non possiamo fingere che questo processo sia neutro solo perché non si individua uno scalino netto.
Facciamo un altro esempio, al di fuori dell’arte: un lungo viaggio. Potremmo fare un discorso analogo rispetto a quello fatto con la fotografia: il come si viaggia è fondamentale, non conta solo la meta.
Poniamo quindi di dover fare un lungo viaggio… Roma-Pechino. Sarebbe una grande esperienza fare un tale viaggio in aereo, ma immaginiamo quante infinite esperienze in più vivrebbe chi facesse lo stesso viaggio in treno. Sarebbe qualcosa di completamente diverso.
E qui potremmo dire di nuovo: e allora chi facesse quel viaggio in auto? E chi lo faceva a cavallo? E a piedi?
Anche qui troviamo quindi una “scala di grigi”, siamo d’accordo. E sarebbe assurdo tracciare una linea affermando che questo è viaggiare e quello no. Ma se continuo ad alzare l’asticella tecnologica e la velocità del “viaggio”, a un certo punto avremo il teletrasporto, o addirittura la possibilità di proiettarsi olograficamente in un luogo senza lasciare la propria casa… e a un certo punto non saremo più in grado di definire quell’azione come “viaggio”, non importa quanto “gradualmente” ci siamo arrivati. Semplicemente non lo è più. Non ha più le caratteristiche fondamentali che lo definivano.
La digitalizzazione, la smaterializzazione degli strumenti, dei supporti, la velocità e facilità con cui si produce… davvero pensiamo che tutto questo non influisca anche sul cosa e sul perché facciamo arte?
Allora proviamo a spingerci fino alla fine di questa “scala di grigi”: immaginiamo un futuro in cui arriveremo a pensare a un prodotto artistico, che so, una canzone, e… stop, basta, la canzone è già pronta, finita, arrangiata, mixata e masterizzata. È bastato pensarla. Non solo, andiamo oltre: il solo pensarla l’ha già trasferita nella mente del fruitore, perché non ci saranno più ingombranti e scomodi dispositivi.
Se davanti a uno scenario simile non si avverte un brivido di terrore, non so cos’altro possa farlo. Certo è uno scenario estremo, ma non è possibile non vedere che il trend attuale punta direttamente verso questo, cioè alla disgregazione delle procedure pratiche, tattili, sensoriali, vive e vere del fare arte arrivando alla disgregazione dell’arte stessa.
Dobbiamo riflettere sulle conseguenze del fatto che tra l’ideazione di un’opera artistica e la sua realizzazione ci sono sempre meno cose, meno processi, meno persone. Uno scenario che non solo è desolante, ma dovrebbe spingere a riflettere su dove si trovi l’arte, cosa sia. Posso essere in grado di immaginare le basi di un romanzo nella mia mente, o pensare a come potrei dipingere una tela, o ancora visualizzare delle scene di un film. Questo fa di me un artista? Il solo aver vagamente immaginato tutto questo? L’arte basta pensarla?
Oppure l’arte prevede anche quella parte di canalizzazione dell’idea, della sensibilità, del bisogno di comunicare qualcosa attraverso gli strumenti e i gesti che poi effettivamente creano l’opera? Beh, tutta questa fase sarà presto sostituita da un prompt da passare a una IA.
Questo non solo ci priverà del come facciamo arte, ma avrà molte altre conseguenze che per brevità evito di analizzare qui, ma pensiamo brevemente anche solo all’isolamento e all’omologazione. Perché ogni cosa che chiediamo di fare all’IA non la stiamo chiedendo a un altro umano, diminuendo drasticamente la coesione e la collaborazione tra artisti dalla quale sono sempre nate cose nuove e inaspettate. Ogni cosa che chiediamo all’IA creerà omologazione: pensiamo a un movimento di macchina da presa, una melodia di sax, una pennellata. Per quanto le “librerie” di questi strumenti siano vaste, non sostituiranno mai le infinite variabili del caso, della pratica, della realtà, persino dell’errore che si verificano quando si deve fare (o far fare) davvero quel movimento di macchina, quella melodia di sax, quella pennellata. La velocità e la sintassi dei contenuti generati dalle IA diventeranno uno standard talmente vincolante che chi se ne discosterà, diventerà semplicemente obsoleto e sarà una voce inascoltata.
In termini più filosofici, stiamo assistendo non allo svincolamento dall’hic et nunc dell’arte, come teorizzato da qualcuno di fronte alla riproducibilità tecnica delle opere, ma alla sua completa disgregazione ancor prima che l’opera sia terminata. Insomma, un’epoca in cui l’arte nasce senza unicità, senza trascendenza, senza amore, senza sudore, che non è un sudore inteso come fatica, ma quello stesso tipo di sudore che bagnerebbe il corpo di chi crea una vita facendo sesso.
Non dobbiamo nemmeno incorrere nell’ingenuità di pensare che l’IA sia solo uno strumento che semplicemente aggiungerà delle possibilità che potranno essere usate oppure no, liberamente. Oltre alla già affrontata tendenza all’omologazione per questioni di mercato, di tempistiche di produzione e di pigrizia del fruitore, in generale, le tecnologie dirompenti non aggiungono mai semplicemente delle opzioni, ma tendono a sostituire quelle esistenti e cambiano radicalmente tutto ciò che vi è connesso. Pensiamo ai social, allo smartphone: questi strumenti, coi quali possiamo contattare chiunque in qualunque momento, avrebbero dovuto aggiungere questa fantasmagorica possibilità alle nostre vite, e hanno invece ridotto drasticamente la nostra socialità sia in termini di qualità che quantità. Non c’è motivo di pensare che per l’IA non si verificherà uno scenario simile.
Non possiamo fingere che i vantaggi forniti dalla tecnologia non abbiano un costo. Dobbiamo assumerci la responsabilità, come individui e come parte della società, di immaginarci il futuro e chiederci se ne vale la pena, perché nessuno ci porrà questa domanda, così come non ci è mai stata posta nella storia quando una grande invenzione ha modificato radicalmente le nostre vite.
Non è un caso che proprio gli artisti si siano accorti, più di altri, del pericolo rappresentato dall’IA, non perché siano più egocentrici o più “boomer” rispetto ad altri attori in gioco il cui futuro verrà fortemente impattato da questa tecnologia, ma proprio per il motivo che mi ha spinto a scrivere questo testo: gli artisti capiscono meglio di altre categorie quanto conti il come si fa qualcosa. Credo servirebbe amore e passione per fare qualsiasi cosa, anche un chiodo, ma è chiaro che se posso creare un chiodo in metà del tempo, sarò portato a vederne solo i benefici. Quando, però, ad essere accorciati, fino ad essere denaturati o sparire, sono i processi della creazione artistica, quelli che legano gli artisti alla propria passione nella quale riversano la propria sensibilità, allora diventa molto più chiaro cosa si sta davvero perdendo e non solo nell’arte… In un mondo sempre più orientato all’immediatezza, al risultato, al produttivismo, siano fottutamente “benedetti” coloro che piantano i piedi anche solo per dire “aspettate un attimo, cosa ci stiamo perdendo?”.
Credo che non accorgersi della direzione intrapresa, rimanendo abbagliati dai soli vantaggi forniti dall’IA, sia un’ingenuità madornale che ci sta impedendo di renderci conto che la linfa di tutto ciò che c’è di bello e creativo sta venendo drenata fuori dalle nostre menti e dai nostri cuori per finire non so dove, forse nel freddo transistor di qualche sperduto capannone usato come data-center o forse su una buffa chiavetta USB usata come portachiavi.