Un illuminante estratto dal libro “Liberi dalla civiltà” di Enrico Manicardi.
Il matrimonio, che si afferma contestualmente alla strutturazione patriarcale della nascente civiltà, ha esattamente questo scopo sociale: garantire al maschio l’acquisto legalizzato della proprietà della donna assicurandogli una discendenza altrettanto legittima. Con il matrimonio, infatti, la donna, che rileva appunto soltanto per funzione procreativa che le viene riconosciuta (e che pertanto non è più nemmeno una donna, bensì una “madre”), passa direttamente dalla “mano” del padre a quella del marito (matrimonio = mater-munus, madre in dono).
In questo modo essa entra con tutti i crismi della legalità del patrimonio (pater-munus, sostanze donate dal padre) dell’uomo che la feconderà.
Di colui cioè che nel vigore delle leggi che tutelano il suo potere di pater familias potrà esser certo che quel figlio generato dalla moglie sarà veramente suo: è cioè il legittimo erede del complesso dei suoi beni.
La natura negoziale (e cioè formalizzata, vincolante e impegnativa) che il matrimonio assume in tutte le società civilizzate (arcaiche e moderne che siano), conferisce rilevanza giuridica a questo potere: quella che era una naturale capacità della donna, ossia quella di partorire figli, passa d’autorità sotto il controllo e la competenza del maschio.
Ancora oggi l’attribuzione al neonato del nome del padre attesta simbolicamente questa sovranità.
Sin dall’avvento delle prime società agricole, il matrimonio, in quanto istituzione patriarcale diretta a garantire il passaggio del patrimonio dal padre al figlio (maschio), escluse la donna persino dalla sua organizzazione: la donna non poteva stabilire chi sposare, ne quando farlo, ne dove farlo; doveva invece accettare l’assegnazione di colui che il padre che le avrebbe imposto come marito, nonché l’insieme di tutti i doveri coniugali che ne sarebbero seguiti (fedeltà, clausura, sottomissione al coniuge).
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Al pari della monogamia, anche l’istituzione della famiglia nasce con lo stesso intento ideologico: consolidare il dominio del maschio sulla femmina.
Fondata sul matrimonio inteso come atto negoziale di sottomissione della donna, la famiglia patriarcale, patrilineare, patrilocale sorge con la civiltà che ne definisce i ruoli dei componenti, si cura di insediarvi il padre come sovrano (dotato appunto di “patria potestà”) e l’autorizza ad esercitare questo potere assoluto su tutte le cose legittimamente rientranti nella sua sfera di disponibilità: beni, figli, mogli.
La stessa origine etimologica del termine famiglia dice tutto: <<famulus>> significa schiavo domestico e <<familia>> è la totalità degli schiavi appartenenti ad un uomo.
Intesa non certo come ambito affettivo di condivisione e di reciproco aiuto, ma come istituzione, ossia come formazione privatizzata e stabile capace di riprodurre al suo interno i rapporti di forza organizzati verso l’esterno, la famiglia u destinata a fare da modello alla successiva costituzione degli Stati.
Quel senso comunitario che aveva caratterizzato la vita umana per milioni di anni, e che aveva sempre consentito ad ogni soggetto di essere una persona libera all’interno di collettività libere, con l’istituzione familiare venne a dissolversi.
Le persona dentro la famiglia scompaiono, come scompaiono nelle aziende, nelle stime auditel o negli indici di consumo. Essere mogli, mariti, figli, significa non essere più persone esclusive, ma essere COME mogli, COME mariti, COME figli.
In quanto istituzione, infatti, la famiglia risponde prima di tutto ad un connotato d’ordine e di autorità: è l’unità di misura della società strutturata gerarchicamente; la cellula della società civile come si dice ancora oggi con un’enfasi benpensante che non fa distinzioni tra mentalità rigidamente conservatrice e ideologia riformista.
“La famiglia è l’archetipo di ogni forma di dominio sociale”, aveva riassunto in poche parole Marcuse. Quella istituzione chiusa composta da un padre, una madre e i suoi figli non è soltanto un’istituzione maschile, che nasce in un contesto di affermazione del dominio maschile, all’interno di dinamiche di sopraffazione maschile che hanno imposto alla donna (e alla natura che si voleva la rappresentasse) la posizione subalterna “elemento” da controllare e dominare; la famiglia è innanzitutto l’essenza stessa del patriarcato e della sua ideologia. E il fatto che la donna abbia oggi raggiunto (almeno in occidente) la possibilità di insidiare il vecchio potere del maschio, al vertice di questa istituzione, non muta la natura patriarcale della famiglia: i figli continuano ad essere considerati di” proprietà” dei genitori; i ruoli continuano ad essere rigidi; l’amore coniugale rimane una “attività sessuale” alla quale adempiere.
Se l’omosessualità, la convivenza more-uxorio, la filiazione (senza padre), l’amore collettivo, non possono oggi essere ancora certificati col “sacro vincolo del matrimonio” è solo per via della loro connotazione ritenuta disordinata e poco affidabile; e non lo saranno, dunque, fintanto che il processo di riduzione della diversità alla logica civilizzata del “tutto uguale” non arriverà a conferire anche a queste scelte di vita (oggi ancora libere e spontanee) il valore della normalità, così come è accaduto alla decisione di indossare la minigonna, di prendere il sole in topless, di calzare stivali o anfibi, di portare i capelli lunghi, gli orecchini, il piercing, ed ogni altra iniziativa che ha perduto la sua originaria connotazione anticonformistica, perché assorbita dalla moda, dal costume, dal mercato, dal consumo.
La difesa della famiglia-istituzione non è ravvisabile oggi soltanto nel atteggiamento di chi ne vuole salvaguardare il tratto autoritario, ma anche e soprattutto in quello pseudo alternativo di chi, lungi dall’accettare di metterne in discussione l’esistenza e le fondamenta ideologiche, si ostina a proporre di estenderla anche ai non sposati, ai gay, alle lesbiche, ai conviventi in genere.
- Manicardi