Che cosa si prova a guardare un estraneo negli occhi, in silenzio, per un minuto?
Tutta la società moderna si basa sul catalogare ed etichettare ogni cosa. La nostra stessa mente è abituata a farlo e lo fa continuamente come un’operazione di routine che gira in background, senza alcun controllo attivo da parte nostra, senza coscienza.
In ogni momento paragoniamo, giudichiamo, confrontiamo, ci creiamo aspettative, etichettiamo e mettiamo via nella mente quello che esperiamo, in un archivio virtuale che servirà da base di dati per i prossimi confronti e le successive archiviazioni.
C’è qualcosa che sfugge però a tutto questo. L’operazione funziona solo quando ci vediamo separati dal resto e soprattutto dagli altri esseri viventi.
Ci siamo disabituati a vederci come parte di quello che osserviamo. In realtà ne siamo talmente parte che possiamo dire che noi siamo ciò che osserviamo. Non c’è alcuna separazione se non nell’indotta necessità di sentirci tali per poi appunto catalogare e giudicare.
Tagliare la connessione tra noi e l’altro è stato un processo lungo e metodico della società moderna, necessario al suo stesso funzionamento poiché nessun suo cardine può esistere senza questa separazione.
Competizione, invidia, paure, rimorsi, diffidenza… Il sistema di oggi di queste energie si nutre. Nessuna di queste energie sarebbe condensabile e usabile senza il sentirsi separati.
Allora, Che cosa si prova a guardare un estraneo negli occhi, in silenzio, per un minuto?
Si prova la sensazione più destabilizzante e profonda che si possa concepire: il rendersi conto che non c’è alcun “estraneo”. Non c’è alcun problema, alcuna competizione, alcun attrito, alcuna paura. Siamo la stessa cosa, abbiamo gli stessi bisogni e non c’è alcun motivo per cui non possiamo aiutarci l’un l’altro per soddisfarli. Insieme.
“Siamo come isole nel mare, separate in superficie ma connesse in profondità.” (William James – psicologo e filosofo statunitense)