l’ultima bolla. prepariamoci.



vi propongo questo articolo che ho trovato di particolare interesse…
sono convinto sia ora che ognuno di noi prenda coscienza del sistema in cui vive, soprattutto della sua faccia nascosta che sta divorando la nostra felicità, il nostro benessere e la nostra salute.
non si potrà contrarre un altro debito, un mutuo o fare un po’ più di straordinario per comprare quello che ci viene rubato ogni giorno… dobbiamo svoltare. ora.

E’ il trucco estremo della finanza: gonfiare a dismisura il debito pubblico. è l’attacco finale alle nostre tasche e alle nostre vite. è ciò che deve indurci a una ribellione a tutto campo

La cosa peggiore che si possa fare in questo momento è continuare a comportarsi come se nulla fosse. Il che significa mantenere lo stesso stile di vita, e di spesa, che si avevano prima che la bolla speculativa mondiale esplodesse. Beninteso, parliamo di chi oggi è ancora in grado di decidere se continuare a vivere come sempre oppure prendere alcuni provvedimenti. Per la fasce più deboli del nostro Paese, per chi già viveva vicino la soglia della povertà economica, per i lavoratori precari senza rinnovo e per chi è finito in cassa integrazione, quando non ha proprio perso il lavoro, quella scelta non c’è e il confronto con gli effetti devastanti ai quali ci ha condotto il nostro modello di sviluppo è già in atto.

A tutti loro, così come a chiunque altro, onestà intellettuale ci impone di suggerire che non è in una ripresa economica che si può sperare. E dunque in un ripristino della situazione anteriore.

Attenzione, però. Senza che se ne parli troppo sui media ufficiali, si è già messo in atto l’unico sistema per non far crollare del tutto il nostro Occidente dal punto di vista economico, ovvero creare una nuova bolla. Ed è esattamente quanto ci si poteva aspettare dai padroni del vapore, piuttosto che sparire subito con quanto rimane nelle loro casse, o essere linciati come probabilmente si meriterebbero.

La bolla che sta crescendo in queste settimane – e che ovviamente prima o poi esploderà – è già stata innescata. Ed è l’ultima possibile prima della fine: si tratta delle bolla pubblica. Ovvero statale.

Dopo il petrolio e la new economy, dopo i mutui subprime e i derivati di Borsa, quale poteva essere l’ultimo elemento su cui speculare a dismisura per sostenere i circuiti finanziari? Lo Stato, naturalmente. L’indebitamento pubblico. Ovvero quello di tutti noi.

Banche e assicurazioni e industrie e posti di lavoro si sta cercando di salvarli attraverso l’emissione incondizionata di denaro. Di denaro senza valore, quando lo si crea, ma onerosissimo poi, quando lo si dovrà restituire. In primo luogo la Fed, che non solo, e da quasi 40 anni, ha svincolato l’emissione di moneta dall’ammontare delle riserve auree, che pure limitavano, almeno in parte, la quantità di denaro circolante, ma che oggi si rifiuta addirittura di rendere pubblico il dato relativo alla quantità reale di moneta stampata. I dollari in circolazione, se non lo sono ancora, stanno rapidamente diventando carta igienica.

A indebitarsi non possono più essere direttamente i cittadini degli Stati, di loro spontanea volontà o facendosi concedere dei prestiti dalle banche secondo la necessità. Ciò non toglie che essi si stiano indebitando, in ogni caso, con il sistema. Senza volerlo. Senza saperlo. Ci stanno pensando i governi al posto loro. Tutto il denaro stampato e messo in circolazione, tutto il debito pubblico dei vari Paesi in crescita esponenziale, è esattamente l’ultima bolla possibile. Ed è esattamente quello che sta accadendo. Si indebita lo Stato, per far fronte alle esigenze attuali, facendo fede sulla possibilità di ripresa di questo modello di sviluppo per poter poi ripagare, un giorno, tale debito.

Solo che questo debito non è solo grande. Sta diventando incommensurabile. E nessuno di noi sarà mai in grado di poterlo ripagare.

Oltre questa bolla c’è il default statale. A fare fallimento, dopo le aziende, dopo le Banche, le Borse e le Assicurazioni, saranno gli Stati.

Siamo, insomma, all’ultima fermata. A meno di sperare di scoprire nuovi pianeti in qualche galassia, e di convincerli a indebitarsi per noi, dunque, economicamente siamo arrivati proprio alla frutta. Dal punto di vista pratico e materiale, almeno per chi è riuscito a mantenere un lavoro, nell’immediato futuro è lecito aspettarsi che non cambi molto. Consumare un po’ meno, visti i ritmi di consumo attuali, non basterà a far scadere troppo il proprio tenore economico di vita. Attenzione: abbiamo scritto economico, perché dal punto di vista psicologico le cose cambiano.

Evitare di cambiare automobile, acquistare vestiti o elettrodomestici in quantità inferiore rispetto a prima, o scegliere un luogo di villeggiatura più vicino alla propria residenza invece di raggiungere un paese esotico, dal punto di vista materiale sposta di poco la situazione. Dal punto di vista psicologico invece, in una società che ha nel solo consumo i motivi di gratificazione, la cosa può avere degli effetti piuttosto importanti. Di questi parleremo in altra occasione: il tema è fondamentale non solo per l’immediato, ma anche per cercare di approdare a un sistema di vita, oltre l’economico, migliore di quello attuale. Merita dunque uno spazio specifico che promettiamo di affrontare a breve. Stavolta continuiamo a concentraci sugli effetti materiali.

Chi ha perso il lavoro e si trova già vicino all’indigenza deve dunque scontrarsi immediatamente anche con la parte materiale, ma per tutti vale la pena riflettere, soprattutto considerando quanto abbiamo detto nello scorso numero della rivista e considerando i probabili sviluppi dell’economia mondiale, su cosa è plausibile aspettarsi e su cosa è vivamente suggerito modificare. In una società con al centro scambi monetari e consumo in grave crisi finanziaria, dipendente dalle fonti energetiche fossili dirette verso l’esaurimento e con sistemi di vita centrati su tali elementi, è ovviamente sulla privazione di denaro che si deve ragionare. Vuoi per mancanza di lavoro, vuoi per aumento dei costi e delle tasse. Dunque la prima cosa da immaginare è come vivere con meno denaro. E con costi sempre maggiori anche delle cose indispensabili.

È lecito aspettarsi, infatti, maggiori perdite di posti di lavoro, meno guadagni monetari, aumento delle tasse, aumento dei costi dei beni primari.

L’Herald Tribune del 23 aprile riportava la notizia secondo la quale l’U.K. sta pensando di incrementare le tasse, per far fronte ai problemi debitori del Paese. Considerando il debito di Stato come fondamentale, visti gli interventi anti crisi di salvataggio della Banche & Co., è probabile dunque aspettarsi – anche per un minore numero di persone in grado di lavorare e dunque di contribuire al gettito fiscale dello Stato – che anche nel nostro Paese assisteremo a un ulteriore incremento delle tasse.

È plausibile inoltre aspettarsi che uno Stato privato del gettito Iva derivante dalla riduzione dei consumi – alla quale si collegherà la chiusura di tanti esercizi commerciali e imprese operanti nei servizi connessi, con ulteriore perdita di posti di lavoro – tenti di incidere sulle tasse con un aumento di quelle dirette. E a maggior ragione, considerando che ci sarà una riduzione di spesa sui beni voluttuari di consumo, non vi sarà altra alternativa che vedere una riduzione dei servizi, con ulteriore perdita dei posti di lavoro, e un aumento dei costi dei beni primari. Si potrà vivere acquistando meno merci non indispensabili, ma si dovrà continuare a mangiare, bere e riscaldarsi.

Su questo preme anche l’incognita inflazione: la continua immissione di denaro da parte delle Banche Centrali nel sistema, per scongiurare la (inevitabile, comunque) caduta delle Borse, porterà fatalmente a una crescita dei prezzi. E dunque all’aumento dei tassi di interesse (mutui, prestiti) e alla caduta del potere d’acquisto sia dei redditi che dei risparmi.

Insomma, ribadiamo: meno denaro a disposizione.

Va da sé, a questo punto, che il fuoco della riflessione debba svolgersi su due binari. Il primo: ipotizzare come vivere con meno denaro. Il secondo: ipotizzare come vivere in modo completamente diverso – sia sul piano psicologico che su quello pratico – rispetto a quanto si è fatto finora.

Un’ulteriore riflessione, che facciamo en passant, riguarda il prevedibile aumento di tensioni sociali e di delinquenza, considerata l’escalation di scontenti ed emarginati.

Molti consigli sono frutto di semplice buon senso. Il difficile non è starli a sentire considerandoli suggerimenti astratti e spunti di riflessione solo teorica. Il difficile è accettarli, riconoscerli, farli propri e, sopra ogni altra cosa, metterli in pratica. Ovvero, condividere l’analisi.

Il treno, in altre (e conosciute) parole, si sta per schiantare. E sta rapidamente arrivando a quell’epilogo. Delle due l’una: rimanere sul treno e aspettare lo schianto, oppure scendere dal treno e cominciare una nuova vita.

Il che implica problemi enormi e non aggirabili. Innanzitutto il fatto di scendere da un treno in corsa, e dunque le probabili conseguenze del salto. In secondo luogo trovarsi in una realtà disgregata e da ricostruire. Dove dover ricominciare tutto, o quasi. La differenza, essenziale, è che in quest’ultimo caso però saremo noi a guidare. Chi si sente pronto? Chi è tanto ribelle da farlo?

Diffidate di chiunque prospetti scenari certi. Ancora di più, come abbiamo visto, di chi (quasi) impone di avere fiducia in una ripresa economica nello stesso solco del sistema che ha portato alla situazione attuale.

Fatto questo, non resta che scendere dal treno. Con una serie di manovre essenziali – alcune, certamente, dolorose – e giocando qualche fiche al tavolo della previsione e della lungimiranza. Facendo fede sulla propria cultura e capacità di analisi.

Innanzitutto non fare debiti di nessun tipo. Da subito. È il principio cardine sul quale si è retto il nostro sistema prima di esplodere: consumare a oltranza e spendere più di quanto si aveva. Appare persino superfluo, come argomento, non fosse che ancora oggi molti, tra quelli che possono avere accesso al credito, continuano imperterriti a ricorrere a rate di vario tipo pur di acquistare oggetti che il più delle volte sono superflui.

In secondo luogo, iniziando un processo inverso, si deve cercare di estinguere il prima possibile i propri debiti. Mentre una volta acquisita la piena proprietà del bene che si è comperato a credito (ad esempio la casa) è plausibile sperare che essa non venga mai più espropriata, è molto alto il rischio che in una crisi strutturale come questa chi è in debito possa precipitare nell’insolvenza. Le ipoteche sono spade di Damocle sulle teste dei debitori. Meglio, dunque, eliminare gli oggetti superflui che si deve ancora finire di pagare, e utilizzare il più possibile il denaro che ancora si ha a disposizione per estinguere i debiti dei beni essenziali.

Si tratta, con tutta evidenza, di un processo in primo luogo psicologico ancora prima che pratico, soprattutto nell’imporsi di non contrarre ulteriori debiti, per modesti che siano. Come ha ben scritto Serge Latouche, e per la verità molti altri ben prima di lui, il temi della decrescita e della decolonizzazione dell’immaginario sono fondamentali. Naturalmente tutto il discorso dello studioso francese, pur profondo nel messaggio, è molto superficiale. Il discorso della decrescita si situa nel solco del nostro modello di sviluppo e ne suggerisce un rallentamento, finanche uno stato di fermo. Ma in una ipotetica direttrice rimane nella stessa dimensione del problema.

Ciò che in realtà auspichiamo, e ciò per cui ci battiamo, è invero una dimensione ulteriore dell’esistenza nel suo complesso. Una dimensione altra che deve situarsi in nuovi scenari, con approcci e obiettivi differenti. È nel senso, inteso nella duplice accezione di direzione e di significato, che si deve agire. E questo deve produrre degli effetti pratici. Per mettere in atto i quali si deve sposare una visione del mondo e della vita completamente differenti da quelli attuali. Vi è insomma bisogno di una Weltanschauung nuova – o perduta – che discende principalmente da un aspetto: ricominciare a stabilire cosa è importante e cosa non lo è.

Dal punto di vista culturale e spirituale, la nostra società è infatti di una povertà assoluta. La vita della maggior parte delle persone si può sintetizzare in tre parole, come sappiamo: lavora, consuma, crepa. Se a una famiglia i cui componenti lavorano come schiavi sei giorni su sette togli il centro commerciale la domenica non resta nulla. E questo è tutto. Ovvero, il nulla.

Uno dei motivi di tensioni sociali e di crisi attuale deriva infatti proprio da questo. Il pur becero, fittizio e inconistente benessere che derivava dallo spendere denaro e accumulare merce, allo stato attuale delle cose è venuto meno. Ed è rimasta unicamente la schiavitù da questo sistema.

Il senso di vuoto, inteso come mancanza di contenuto, fino a ieri riempito dal surrogato della merce, è oggi una voragine che si apre all’interno della gente. Tale vuoto era originariamente colmato dal senso di cittadinanza, dal sapere che si faceva parte di un destino comune. Dai rapporti sociali e comunitari.

Ma mentre la nostra società ha svuotato quasi del tutto questo contenuto fondamentale, provocando il vuoto che si andava a riempire attraverso i gironi danteschi degli scaffali, il processo inverso, oggi che viene meno il consumo, è molto più complesso. Perché ha bisogno di un percorso culturale le cui tracce, per chi è maggiormente inserito nel sistema stesso, sono di difficile individuazione.

Ed è invece a queste che si deve tornare.

Più facilitato, naturalmente, sarà chi non se ne è discostato troppo anche in questi decenni difficili per respirare. Così come lo sarà, almeno in parte, chi adesso si è finalmente convinto di doverle ricercare. Dal punto di vista pratico si deve pertanto resistere al consumo compulsivo per colmare altre lacune. E al frastuono dei centri commerciali, del mondo dei media pubblicitari, si sostituirà il silenzio necessario a scoprire e a percorrere l’altra dimensione dell’esistenza cui facevamo accenno.

Ti puoi fidare dei tuoi condòmini?

Molto spesso non ci si saluta neanche più in ascensore. Prepararsi ai prossimi anni necessita invece della riscoperta comunitaria. Potrebbe sembrare di essere soli, tutti contro tutti. In realtà c’è molta gente con la stessa sensazione, con le stesse necessità, che aspetta solo di ritrovare lo spirito comunitario di propri simili.

Una delle cose più importanti è dunque quella di iniziare nuovamente a creare una rete, una propria rete di amicizie e persone fidate con le quali trovare coesione, alleanza. Amici, amici veri (quanti se ne hanno?) parenti, persone con le quali condividere gli stessi percorsi, le stesse necessità. Bisogna insomma trovare le basi per affrontare il periodo di transizione che abbiamo di fronte. Se prima pensavamo – meglio: qualcuno pensava – di poter essere felice con il carrello pieno, lo shopping la domenica, il nonno con la badante o spedito in un ospizio, i figli con la baby sitter e lavorare quaranta ore a settimana, annodare fili su fili per poi tentare di scioglierli con quindici giorni di ferie all’anno, ebbene per forza questo stato di cose dovrà cambiare. E sarà un bene.

Per quanto attiene ai beni immobili il discorso è di una semplicità assoluta. Facciamo due esempi. Il primo, più comune, di chi si è indebitato una vita intera per acquistare un appartamento di 80 metri quadri a un terzo piano di una anonima periferia di una grande città. Il secondo, di chi ha fatto lo stesso per una casa fuori città, magari con un piccolo terreno intorno, o un giardino più o meno grande.

Ora attenzione: nel primo caso, cosa si possiede? Una abitazione sospesa a un terzo piano, magari su un pianerottolo con altri tre appartamenti in un palazzo di cinque piani. Il che significa che in realtà si possiede un minimo corrispettivo di terreno, a terra, e un minimo corrispettivo di solaio. Da dividere con tutti gli altri condomini della stessa colonna del palazzo che, appunto, hanno in con-dominio, un tot di terreno sul quale – letteralmente – vivono uno sopra all’altro.

Nel secondo caso, per esempio di una casa a due piani con un giardino intorno, non si è più un "Giovanni senza terra" ma si ha qualcosa che oltre a permettere di avere un tetto sopra la testa – di cui si è unico proprietario – offre potenzialmente la possibilità di un minimo di sussistenza.

Insomma la differenza è enorme, proprio dal punto di vista pratico, e soprattutto in previsione di quanto potrebbe accadere in futuro.

Il mondo moderno ha visto l’afflusso verso le città per andare incontro alla domanda-offerta di lavoro nelle attività tipicamente cittadine. Esercizi commerciali o servizi che siano. La concentrazione nelle città ha reso tutti dipendenti da due cose: il denaro per acquistare ciò che in città non si produce e dunque qui si deve far arrivare (soprattutto cibo) e il fatto di dover sottostare ai prezzi altissimi anche per un semplice appartamento. Per non parlare della qualità della vita, all’interno delle nostre città.

Molte persone stanno capendo che il gioco non vale la candela. Per molti, soprattutto adesso, ovvero chi non ha un lavoro in città e dispera di averlo in futuro, è chiaro come sia assurdo tentare con le unghie di rimanere in un ambiente costosissimo che offre esattamente, peraltro, lo stile di vita cucito su misura al tipico uomo moderno che meccanismo del lavora-consuma-crepa.

Cosa si rimane a fare, dunque, nelle caotiche, alienanti, costosissime, cancerogene città? Soprattutto: quanto le grandi città sono oggi in grado di poter offrire quello che serve per vivere?

Materialmente, per vivere, non è che serva poi molto. Le esigenze sono sempre le stesse, almeno quelle di base. È dopo aver soddisfatte queste che viene il resto. Fino a ora, il resto significava soprattutto merce, cultura, divertimento. Ma la declinazione, la chiave di lettura di questi altri aspetti, è divenuta consumo. Consumo di merce, di cultura, di divertimento. Appunto.

La vita come un costoso tubo digerente.

Il “migliore dei mondi possibili” ha postulato di lavorare, di lavorare sempre di più, prima per vivere, e quindi per consumare. La domanda da porsi, alla fine, è sempre la stessa: quanto siamo diventati felici?

Non è forse nell’avere meno, nel lavorare meno, nell’avere più tempo per sé che possiamo trovare le basi per affrontare questo periodo di transizione così come di un nuovo paradigma di vita?

Non è che ci sia un metodo. Ci sono però alcuni principi. Partono innanzitutto da un processo di eliminazione: del caos, dello stress, del rumore, della lotta metropolitana che inizia la mattina quando ci alziamo per andare a lavoro, prosegue in ufficio, e ancora una volta mentre tentiamo di tornare a casa.

È questo il momento di riscoprire alcuni punti chiave, come il contatto con la natura e gli spazi vitali più ampi (via dalle fabbriche e dalle città); le occupazioni più legate al territorio e alla persona (rispetto alla alienazione di produrre qualcosa di inutile); la riscoperta della comunità, della partecipazione e della collaborazione (rispetto alla logica competitiva del tutti contro tutti).

Le parole d’ordine, in tal senso, sono riduzione, disintossicazione, localismo, autoproduzione, scambio, prossimità, comunità.

Ridurre i consumi anche prima di doverlo fare per forza. Sottrarsi alla dipendenza indotta dalla propaganda. Scegliere un territorio nel quale radicarsi, autoprodurre il possibile e innescare processi di scambio e sostegno reciproco all’interno di comunità che vogliono condividere lo stesso percorso culturale e di vita. Può non essere affatto sbagliato indirizzare i propri figli a studiare agraria. È indispensabile ricostruire il tessuto sociale che la competizione del nostro mondo ha disintegrato per sconfinare nella lotta di tutti contro tutti.

E attenzione: se uno dei punti cardine di tutto il processo di transizione è quello della diminuzione, l’altro, ancora più importante, è quello della differenziazione.

Perché riduzione non significa vivere nello stesso solco al quale siamo abituati semplicemente impoverendo – dal punto di vista materiale – la propria vita. La chiave di volta è quella di sostituire alcune caratteristiche della nostra attuale vita alienata con altre ormai perdute. Allo spostamento nel traffico si deve sostituire un lavoro locale, che non necessiti spostamento. Alle ore di lavoro straordinario per avere qualche euro in più da spendere in sciocchezze si può sostituire il tempo libero per fare altre attività più edificanti, per se stessi e per la comunità nella quale si vive. Non vi è praticamente attività, passione, attitudine e capacità che non possa essere applicata e declinata anche in situazioni locali, invece che globali come facciamo adesso. È la finalità con la quale si svolge l’occupazione che deve cambiare. Fino a ora era accumulo di denaro e competizione personale. Domani (o già oggi) può diventare miglioramento della propria comunità, oltre che costruzione personale come è giusto che sia.

E avremo dato scacco matto al sistema.

Torneremo sull’argomento con esempi pratici di chi lo sta facendo.

Presto.

Valerio Lo Monaco
Fonte: www.ilribelle.com/
19.05.2009