illudersi patologo



mi tengo a qualche passo dalla mia miseria. abbastanza vicino da poter vedere il bianco splendente dei suoi vasti occhi, gli zigomi alti, le labbra naturalmente sporgenti e vive. abbastanza lontano per evitare di toccarla.
è attraente. seducente. come qualunque altra parte di me che odio.
sarà averla legata alla sedia che la fa apparire più selvaggia, meno sottile, com’è di solito: silenziosa appare quando mi guardo allo specchio, prende le mie sembianze e, se non sto attento, la confondo con me stesso.
non mi toglie gli occhi di dosso mentre le giro attorno. lei non si muove, ma anche quando le sono dietro le spalle, continuo a vedere il suo volto.
è l’ultimo rifugio questo, dove ho legato lei, che visito oggi. in tutti gli altri ho imprigionato differenti parti di me.
uscendo la porta sbatte disseminando l’aria di polvere arancione, desertica.
il sole delle 18 mi piomba in faccia pennellandomi di calore ed io mi butto sulle mie chiappe, per terra, con la schiena appoggiata alla porta.
“tutto questo è inutile” dico ad alta voce. per sentirlo dentro alla gola, nella bocca, non solo nella mia testa. ma continua a non bastare: rimango vittima di questo gioco delle parti che mi vede come un efficiente medico patologo, pronto a dissezionare le parti di un’anima che non funziona per capirne la ragione. eppure è proprio questo che non funziona in primo luogo.
miseria, abbandono, noncuranza, astio e aridità… tutti loro, che ho rapito e legato in ogni singolo rifugio, rappresentano un fallimento: le corde che li legano sono inutili.
mentre disfaccio ogni singolo nodo e taglio quelli che non riesco a sciogliere, li vedo alzarsi, uno ad uno, senza rancore, senza espressione, e confondersi di nuovo con il mio sé. non ci sono corde che possono legare le diverse parti di me: ciò che era separato rimane separato, ciò che era unito rimane unito. in ogni nodo che li stringeva sulla sedia c’era la forza che ci teneva divisi, ma anche la stessa forza che ci univa, perché inevitabilmente io sono loro. e sono la corda, sono la sedia. sono il rifugio, la porta, la polvere, il sole.
e infine sono l’illusione stessa che mi vede separato da tutto questo.