Il mito della comunità scientifica



Invocare la cosiddetta comunità scientifica è diventato un mantra moderno molto usato, non solo in ambito scientifico e giornalistico, ma anche tra la gente comune.
L’idea alla base è che ci sia questo organo collegiale che vigila sulla giustezza delle scoperte scientifiche fino ad arrivare a coprire con la sua benefica influenza anche scelte politiche. Insomma un bel tappeto comodo comodo sotto cui gettare tutti i dubbi che possono sorgere su scoperte scientifiche, loro applicazioni pratiche e derivanti legiferazioni in merito.

Ma come funziona questa “comunità scientifica?”
Prima di tutto il senso della parola comunità è proprio quello più “laico”, ovvero un insieme di persone. Le persone di cui parliamo sono appunto gli scienziati che aderiscono comunitariamente a dei “valori” quali la sperimentazione e la conoscenza. Quindi parliamo di una comunità mondiale di persone distanti anche migliaia di chilometri che lavorano più o meno con gli stessi metodi e attitudine, e che a loro volta formano comunità più piccole in base al ramo scientifico di cui si occupano e che a loro volta si ramificano ancora in base al campo specifico e così via. 
Stiamo parlando quindi non di un congresso o un parlamento, ma di un concetto astratto esattamente come può essere quello di “nazione” inteso come insieme di cittadini e quello di “internet” inteso come insieme di navigatori.

I membri della comunità scientifica, come quelli di tutte le comunità, dialogano tra loro. Al di là di convegni e seminari, la forma più autorevole di comunicazione avviene attraverso le riviste scientifiche dove vengono pubblicati articoli riguardanti nuove scoperte. Più una rivista è autorevole e più le ricerche pubblicate sono sicure e valide perché attentamente vagliate. Attraverso queste pubblicazioni, che contengono anche dettagliate metodologie di analisi, la comunità scientifica viene a conoscenza di nuove scoperte, come queste siano avvenute e chi le ha condotte, in modo da usare queste informazioni per ulteriori ricerche.
Un metodo che sembra molto sicuro.

La parola “sembra” è d’obbligo perché per considerare questo sistema di cose sicuro e per vedere la comunità scientifica come portinaia della Verità, è necessario trascurare una lunga serie di fatti, dettagli e ragionamenti logici.

Partiamo con la pubblicazione su riviste scientifiche.
Questa avviene attraverso la cosiddetta peer review (revisione paritaria) ovvero la validazione di un lavoro scientifico da parte di ricercatori che lavorano nello stesso ambito. Passata questa revisione, l’articolo viene pubblicato e diventa letteratura scientifica.
Questo processo viene spesso fatto passare come una validazione di una ricerca da parte della comunità scientifica, convogliando l’autorevolezza di milioni di addetti ai lavori a ciò che viene pubblicato, però la cosiddetta comunità scientifica non è per nulla coinvolta nella pubblicazione degli articoli ma solo chi è interpellato a validarli dall’editore scientifico. Il resto della comunità può leggere e, nel caso, confutare quella ricerca, ma di questa enorme massa di scienziati quanti, effettivamente, leggono nel dettaglio quella ricerca, vogliono testarla e hanno, allo stesso tempo, capacità e strumenti per farlo? Stiamo parlando di un ago nel pagliaio. 
La maggior parte della letteratura scientifica quindi dipende dalla revisione di pochi scienziati che si basano su altra letteratura revisionata allo stesso modo. Non c’è nessuna “comunità scientifica” intesa come un insieme di migliaia se non milioni di scienziati che attivamente ne controlli e garantisca la validità. La presunta pluralità di questa immensa comunità che dovrebbe difendere la validità delle ricerche dall’errore o malafede di pochi è di fatto inesistente.

Come riportato anche in un mio precedente articolo, la rivista scientifica Nature ha condotto una ricerca statistica coinvolgendo 1500 scienziati per comprendere quanto i risultati pubblicati sulle riviste scientifiche siano riproducibili. Nature ha scoperto che gli scienziati interpellati non hanno ottenuto gli stessi risultati di ricerche altrui nel 70% dei casi e il 50% di loro non ha ottenuto gli stessi risultati nemmeno cercando di riprodurre le proprie ricerche.
John P. A. Ioannidis (medico-scienziato che ha contribuito alla letteratura in medicina, epidemiologia e salute pubblica, scienza dei dati e ricerca clinica) ha pubblicato un articolo nel 2005 sul Public Library of Science con l’eloquente titolo “Perché la maggior parte dei risultati di ricerca pubblicati sono falsi”. Sempre nello stesso anno Ioannidis ha analizzato 49 dei risultati di ricerca più apprezzati in medicina negli ultimi 13 anni scoprendo che, in analisi successive con campioni di analisi più ampi, solo il 44% di quei risultati è stato replicato, il 32% risultavano contraddetti o presentavano effetti minori.
Nel 2014 ha pubblicato un’altra ricerca che affronta come poter ottenere più pubblicazioni veritiere. Nelle premesse si stima che l’85% delle risorse di ricerca siano sprecate e si mette in luce il rischio di alti tassi di falsi positivi delle ricerche imputando il problema a una serie di fattori tra i quali ci sono i pregiudizi, i conflitti di interesse e mancanza di collaborazione.
Non c’è da stupirsi che il capo editore della rivista scientifica Lancet (una delle più autorevoli) abbia dichiarato che “…gran parte della letteratura scientifica, forse la metà, può semplicemente essere falsa. Tormentata da studi effettuati con campioni di piccole dimensioni, risultati infimi, analisi esplorative non valide e palesi conflitti d’interesse, aggiunti all’ossessione di seguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza ha preso una svolta verso l’oscurità.”

Considerando tutto questo e che ogni ramo della scienza è sempre più sottile e dedicato, il cosiddetto dibattito scientifico su una data ricerca riguarda in realtà un numero limitatissimo di scienziati e non è impermeabile a tutto un cosmo di realtà che sta attorno a quel dibattito. 
Consideriamo per esempio il segreto industriale e quanto un brevetto, un marchio o un copyright possano impedire un dibattito aperto su una scoperta scientifica. Consideriamo la pressione lobbistica delle case farmaceutiche: è impensabile credere che la ricerca in questo campo sia esente da corruzione o altre pratiche illecite soprattutto quando consideriamo che parliamo di aziende con indotti da capogiro.

La questione lobbistica di solito viene banalizzata e ridicolizzata affermando che non esiste nessuno in grado di corrompere TUTTA la comunità scientifica, cioè ogni singolo scienziato ovunque nel mondo. Ma questa obiezione è ridicola. In tutti i settori dello scibile umano esiste una compartimentazione delle mansioni e delle responsabilità che permette di far accadere cose toccando solo i giusti ingranaggi, senza bisogno di avere sotto controllo tutta la macchina. Ma sembra veramente ridicolo in questo momento storico, dopo gli infiniti esempi offertici in tutti i settori, dalla politica all’economia, dover ancora analizzare un aspetto talmente banale ed ovvio. 
Nessun settore importante dal punto di vista politico o economico è esente dalla creazione di potentati più o meno oligarchici che tentano di far prevalere la loro volontà.

La Pfizer e la Johnons&Johnons, ad esempio, due colossi del settore farmaceutico, fatturano rispettivamente 52 e 76 miliardi di dollari all’anno. In nessun campo imprenditoriale si esclude la possibilità che grandi aziende facciano cartello, manipolino dati o facciano pressioni di tipo lobbistico, anzi, la cronaca è piena di esempi ed è noto che accada. Quando però si parla di scienza, improvvisamente un paraocchi viene calato sul volto e tutto cambia, al punto che ad esempio l’espressione “Big Pharma” è considerata complottismo da due soldi.
Eppure ci sono addetti ai lavori come B. Saraceno (Psichiatra, per più di 10 anni Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Abuso di Sostanze della Organizzazione Mondiale della Salute) che non solo usano giustamente quel termine ma lo usano per denunciare, ad esempio, nel suo libro “Sulla povertà della psichiatria”, che la spesa per il marketing di Big Pharma negli Stati Uniti dal 1996 al 2005 è cresciuta da 11,4 a 29,9 miliardi di dollari e la spesa di pubblicità diretta al consumatore, nello stesso periodo, è cresciuta del 330%.
Riprendendo le due aziende citate poco sopra, la Johnson&Johnson nel 2013 ha speso 17.5 miliardi di dollari nel marketing contro gli 8.2 in ricerca e sviluppo di nuove molecole; la Pfizer a fronte di 11.4 miliardi di dollari spesi nel marketing ne ha spesi 4.8 di meno per la ricerca.
Pensare che con cifre di questo calibro in ballo le aziende interessate possano fare dei responsabili passi indietro quando trovano muri politici, etici o scientifici è semplicemente imbarazzante.
Le attività di corruzione e lobbismo sono infinite. 
Recentemente in Grecia la Novartis avrebbe pagato tangenti (le carte dell’FBI parlano di 50 milioni) per far aumentare i prezzi dei propri farmaci sul mercato ellenico e per farli acquistare dal servizio sanitario nazionale per gli ospedali pubblici. Uno scandalo che coinvolge numerosi nomi della politica.
La casa farmaceutica Glaxo sta collezionando accuse di corruzione in giro per il mondo, senza tregua. In Polonia il manager regionale della Glaxo Smith Kline e 11 dottori sono sotto indagine per un presunto giro di mazzette versato ai camici bianchi in cambio della prescrizione del farmaco antiasmatico Seretide.
Pfizer nel 2009 ha patteggiato una multa da 2,3 miliardi di dollari negli USA: aveva pagato tangenti ai medici per prescrivere quattro farmaci tra i quali l’antiinfiammatorio Bextra, ritirato dal mercato nel 2005 a causa di incertezze sulla sua sicurezza.
Eppure anche nel nostro “piccolo” in Italia, per fare qualche esempio, abbiamo visto la Glaxo pagare una tangente all’allora ministro (e medico) De Lorenzo affinché un vaccino diventasse obbligatorio, ma si potrebbe anche citare l’orrenda storia di Duilio Poggiolini che negli stessi anni prendeva tangenti dalla case farmaceutiche per inserire i loro prodotti nei prontuari, lo stesso Poggiolini che è collegato anche con lo scandalo degli emoderivati infetti messi in commercio, tra le altre, da Bayer e Baxter: queste compagnie erano al corrente che gli emoderivati in loro possesso erano infetti ma anziché distruggerli e perdere quattrini hanno semplicemente continuato a venderli all’estero. Secondo alcune stime, in Italia i decessi per infezione da emoderivati sono, al 2009, circa 2.600 mentre sono più di 66 mila le richieste di indennizzo da parte di pazienti per danni subiti.
Ma si potrebbe andare avanti per ore. 
Ridere e scherzare sul termine “Big Pharma” davanti a tutto questo più che ingenuo e idiota è quasi criminale.

Basti pensare che, senza scomodare atti di puro lobbismo e corruzione, persino il numero e la qualità delle ricerche seguono naturalmente i soldi: gli ambiti di ricerca che possono portare a scoperte interessanti per i mercati pullulano di ricercatori mentre gli altri ambiti vanno sempre più deserti.
La ricerca indipendente è semplicemente strozzata, la stragrande maggioranza delle ricerche è finanziata da aziende private e questo è un grosso problema, sia per quanto riguarda l’attendibilità dei risultati, sia perché la ricerca è indirizzata ad ottenere risultati spendibili sul mercato, non socialmente utili. Ad esempio la spinta può essere verso ricerche che portino a nuovi prodotti medici riguardanti patologie che statisticamente colpiscono pazienti con alto reddito oppure ricerche su temi che possano distrarre dai potenziali rischi di altri prodotti già in commercio.
Il CODACONS ha pubblicato la lunghissima lista dei medici italiani e delle fondazioni, università finanziati dalle case farmaceutiche nel 2015-2017, lista in cui appare sorprendentemente anche l’Istituto Superiore della Sanità, fatto che l’associazione ritiene “quanto meno inopportuno” e invita chi di competenza a dare dettagli in merito.
Anche la dottoressa Marcia Angell, ex caporedattrice del New England Journal of Medicine, in un articolo sul Boston Review descrive la “sordida storia” di come i dollari delle multinazionali abbiano corrotto la ricerca e l’istruzione nei centri medici accademici, incluso il suo attuale posto di lavoro, la Harvard Medical School.
Anche Arnold Seymour Relman (1923-2014), professore di medicina a Harvard e, anche lui, ex redattore capo dello stesso giornale ha affermato “La professione medica viene comprata dall’industria farmaceutica, non solo in termini di pratica medica, ma anche in termini di insegnamento e ricerca. Le istituzioni accademiche stanno diventando gli agenti pagati dell’industria farmaceutica. Penso che sia vergognoso”.
Sembra davvero banale dover argomentare in proposito, ma chi ha frequentato l’università sa benissimo che persino in quell’ambito, quando ancora non ci sono soldi né carriere in ballo, esistono pressioni che non permettono di trattare certi temi per la propria tesi in completa libertà. Se questo avviene in un ambiente “protetto” che è addirittura precedente a quello del lavoro…

Oltre a questo, laboratori e istituzioni di ricerca hanno forma gerarchica e i presunti risultati oggettivi a cui dovrebbe arrivare la scienza lasciano il passo a meccanismi come nepotismo, autoritarismo e catena di montaggio in cui le ricerche e le intuizioni del singolo, assieme alla loro possibile validità e scientifica e utilità sociale, contano sempre meno. 
Non dimentichiamoci ad esempio di come siano stati trattati alcuni scienziati e medici solo per aver suggerito una maggiore farmacovigilanza nel settore vaccini o perché, sempre nell’ambito dei vaccini, semplicemente hanno rammentato di tenere presente anche i rischi correlati oltre ai benefici. Alcuni, solo per queste posizioni precauzionali, sono stati radiati, cosa che non è successa a medici che hanno leso volontariamente la salute dei loro pazienti. Successivamente la radiazione viene usata come elemento di prova della non-genuinità delle affermazioni del radiato da parte di tutta la comunità scientifica e dell’opinione pubblica, un meccanismo molto poco scientifico.
È evidente che in alcuni ambiti la libertà di dissenso che dovrebbe stare alla base del cosiddetto “dibattito scientifico” e che dovrebbe garantire la genuinità delle scoperte scientifiche, semplicemente sparisce dietro l’ombra colossale del dogmatismo, prezzolato o no che sia.

Quando si parla di scienza, sia che lo faccia uno scienziato che un non addetto ai lavori, si ha sempre l’idea di parlare di qualcosa di super partes che non ha a che fare con la fallibilità umana, col conflitto di interessi, con l’economia, con l’egemonia, con il capitalismo, con l’utilitarismo, con il produttivismo, ecc. 
Questo è il grande errore: inglobare in un metodo di indagine (quello scientifico, considerato puro e sempre tendente alla verità senza pregiudizi) tutto quello che ha a che fare con quel metodo, anche se dipende o genera o riguarda ambiti molto più complessi e diversificati che non hanno più niente a che fare direttamente con quel metodo, implicando premesse e conseguenze del tutto diverse.
È come se pensassimo che in uno stato fondato sull’ideale della democrazia (intesa come potere decisionale del popolo), automaticamente tutto quello che uscisse dal parlamento (qualunque legge, decreto, scelta politica, lavoro pubblico, ecc.), fosse per forza di cose espressione della volontà popolare.
È chiaro che questo è di fatto un ragionamento molto ingenuo e non realistico. Eppure per la scienza funziona così. È come se pensassimo che, siccome il sistema giuridico si basa sul concetto de “la legge è uguale per tutti”, allora conseguentemente la magistratura e tutto il sistema giuridico siano esenti da 
corruzione, errori, impedimenti, pressioni di potere, ecc. Sarebbe ridicolo pensare questo.
Ecco invece molti scienziati e molte persone credono che questa fantomatica “comunità scientifica” abbia le stesse mirabolanti peculiarità del parlamento e della magistratura descritte nei ridicoli esempi di poco sopra in cui queste entità sono esenti da qualsiasi contaminazione per il solo fatto che alla base ci siano principi corretti.
Scienza, politica e magistratura non sono affatto diversi: così come, ad esempio, dei parlamenti hanno varato leggi razziste, così i tribunali le hanno applicate e la comunità scientifica dell’epoca ha avvallato scientificamente quell’idea aberrante e criminale.
La cosiddetta comunità scientifica è solo un concetto astratto e non è garante di alcuna verità scientifica. Mai questa ha fatto muro contro decisioni dei vari potentati (se non a posteriori e molto raramente), anzi, di solito la scienza e la sua comunità sono espressione delle dinamiche economiche, capitaliste, industriali, produttiviste, politiche e militari; ne hanno sempre sostenuto le decisioni e a loro volta ne sono state espressione.

Fonti:

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4204808/

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1182327

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2018/02/12/tsipras-su-scandalo-novartis-far-luce_86ae98b2-d8a0-41bb-b786-a2483929b94a.html

http://www.movimentodeicittadini.it/dirsol/des3/farmaci.htm

https://en.wikipedia.org/wiki/Contaminated_haemophilia_blood_products

http://bostonreview.net/archives/BR35.3/angell.php

https://codacons.it/ecco-la-lista-dei-medici-italiani-e-delle-fondazioni-universita-finanziati-dalla-glaxo-smith-kline-nel-2015-2016-e-2017/

https://www.bbc.com/mundo/economia/2009/09/090902_1730_multa_pfizer

http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/05/news/l-industria-farmaceutica-investe-in-marketing-il-doppio-rispetto-alla-ricerca-1.315133