alla fine mi rendo conto che non è camminare quello che faccio. è allontanarsi.
quando si cammina, si può scegliere una direzione ed il muoversi può portare ad uno stimolante walzer fra te e le cose della vita. ti avvicini e ti allontani da tutto, come in un sottile e silenzioso baratto di esperienze che porta sempre il bilancio in attivo. perché il ricavo sta anche solo nel conoscere.
io mi allontano. e basta.
non ho più il sapore di chi ero e, di conseguenza, di chi sono. pensavo di migliorarmi col tempo ma un onesto confronto con il me di anni fa mi vede perdente. ho perso l’ardire. la genialità dell’ardire. che cos’è perderlo senza guadagnarne in saggezza? una mutilazione.
mi nascondo in effetti dietro ai fiumi di cose che succedono, alla mancanza di quella solitudine quasi dogmatica che m’imponevo. non era quell’eccentricità affascinante che m’affibbiavano descrivendomi “è strano, ma è buono”. no… era una necessità. fisiologica quasi.
io non posso esistere, nel senso più profondo del termine, se non da solo. devo prenderla a schiaffi e morderla quella faccia allo specchio. ci vuole una meditazione che mi faccia trascendere che mi porti smetterla di vederla come quello che è quando tutti sono intorno: un semplice riflesso.
dentro so che non è un riflesso. è un altro essere vivente… e devo riuscire a prenderlo per il bavero e fargli sputare fuori lacrime e sangue. altrimenti finirà per affogarci… non si può passare troppo tempo a scambiare ricordi per incubi. devo rinsavire. o impazzire, se volete.