non voglio scrivere. voglio dire.
dire di me a me. in silenzio. in contemplazione.
d’un tratto gli spazi incolmabili diventano colpe, come fosse non concessa la distanza, la diversità, l’incompatibilità.
essere inusuali non aiuta: le soluzioni esistono solo per le cose già viste, già fatte e risolte.
ci sono catene che legano così sottilmente da diventare bisturi invisibili. se si cerca di tirare, non è la libertà che s’ottiene, ma grandi e piccole sanguinanti ferite.
è un’alterazione che cerco, un abbandono, un’immersione affannosa, in apnea che cambi colore alle pareti, che cambi il giorno in notte ed i conoscenti in stranieri dalla lingua incomprensibile.
è l’ayahuasca mentale, la dissociazione allucinogena. non si aprono porte senza chiavi e non si varca soglia senza cambiare stanza. l’immaginazione. gli occhi della mente sono il filo d’Arianna che avevo perso e ora ritrovo dimenticato, assieme alla solitudine imposta, il rifugio necessario, l’abbandono, di nuovo, la distanza.
dove sei futuro incerto? così suadente e ispirante. possibile che ad ogni colore da scoprire io non riesca che ad associare un nero spietato e muto? gli affascinanti interrogativi son diventati pesanti ed affilati uncini, fardelli che non riesco a portare, né ad ignorare.
non è solo il quotidiano a dilaniare ogni singulto di colore, è piuttosto una mente che fugge sempre nella direzione sbagliata. e da me s’allontana quello che amavo dell’essere me.