Il caso Armine Harutyunyan, ha di nuovo dimostrato di cosa sono fatte le trame che tessono questa società ma non solo. Per riassumere, stiamo parlando di una modella di Gucci ed inserita, sempre da Gucci, tra le 100 modelle più belle del mondo e per questo sommersa di insulti sui social per la sua “bruttezza”.
Gli insulti ricevuti dalla ragazza sono a dir poco agghiaccianti. Alcuni si chiedevano se fosse una donna, altri affermavano “Se fa la modella quella lì io sono Miss Italia”, altri ancora si chiedevano “di che razza fosse”, ecc. Tutto condito da veri e propri insulti, offese ed improperi.
Analizzando questi commenti, lo spaccato che ne emerge è evidente: una società di credenti che si genuflettono e credono a tutti gli stereotipi che gli vengono sottoposti, come fossero dogmi, al punto che, alla prima “sbavatura” di questa narrazione, rispondono con la violenza di chi ha paura che il suo punto fermo sia messo in discussione dagli stessi preti che gliel’avevano fornito.
E così funziona in molti altri campi, non solo nella “bellezza”, ma il fatto che stiamo parlando di canoni estetici, quindi di qualcosa di effimero, di oggettivamente mutevole e poco importante, rende la cosa ancora più grottesca. Siamo davanti al trionfo dello status quo, delle aziende che possono definire come pensano le persone e gestirne le reazioni. Siamo davanti ad alcuni uomini che si arrabbiano quando il loro prete mediatico gli fornisce uno stereotipo di donna che loro non si scoperebbero, mentre alcune donne si arrabbiano perché quello stereotipo mette in crisi il modello perfetto e irraggiungibile con cui si erano sempre messe in competizione. L’odio e lo smarrimento di una società abituata ad essere presa per il culo e imboccata che sente cambiare il sapore e il colore di quell’inganno. A farne le spese ovviamente Armine.
Al di là di questo è stato triste, di nuovo, vedere la reazione di una parte dell’attivismo. Alcuni hanno parlato di Armine come di una bellezza anticonvenzionale che sfida i canoni di bellezza, hanno parlato della moda come fosse una forma d’arte e delle aziende di questo settore come pioniere del cambiamento verso l’inclusione.
Non so se queste affermazioni possono rientrare nell’ingenuità o nel danno cerebrale, non sono un esperto né dell’una né dell’altra cosa, forse dovrei leggere di più in merito… Ma questa è un’altra storia.
Stiamo parlando di aziende che fino a ieri hanno promosso un canone di bellezza specifico, di una donna adatta al consumo maschile, di perfetti manichini maschili e femminili, che improvvisamente buttano nel mucchio qualcosa di completamente diverso, non un poco, ma drasticamente diverso. Questo non è un encomiabile tentativo di prendere un’altra rotta rispetto alla merda che loro stessi hanno generato fino a quel momento. Sarebbe ovvio anche a un bambino. Queste aziende di mestiere fanno principalmente marketing, ovvero far cambiare idea alla gente, quindi sanno benissimo che non è questo il modo di cambiare la percezione delle persone, anzi, questo è il modo di triggerarle ed esasperare le posizioni opposte con l’unico scopo di generare conflitto e quindi discussioni accese e quindi notorietà e quindi profitto.
La polemica sulla modella infatti ha fatto parlare di Gucci anche chi non entra mai in contatto con il brand Gucci. Missione compiuta.
Stessa cosa è successa con Jari Jones, la modella di Calvin Klein, grassa, nera e trans, usata per la campagna “Pride” fatta uscire in copertina nel mese del Gay Pride e per sposare assieme le campagne Black Lives Matter.
Qui non stiamo parlando di un dibattitto sulla bellezza né sull’inclusione, qui stiamo parlando solo di aziende che stanno cercando fare fatturato anche grazie al dissenso, alla critica e ai movimenti per i diritti sociali. E ci stanno riuscendo benissimo a giudicare dalla reazione di certi attivisti.
La moda è da sempre l’emblema dell’apparenza, dell’abilismo, del consumismo, del produttivismo, del lusso, del capitalismo e del classismo. Se qualcuno a questo punto pensa che queste osservazioni sulla moda non siano realistiche perché, ad esempio, esistono modelle disabili o perché esistono collezioni create con materiali di riciclo, sta facendo lo stesso ragionamento del razzista che dice “ho molti amici neri”: prendere delle piccole eccezioni come la negazione della norma.
Dire la propria e “difendere” qualcuno che fa parte di questo mondo malato che è la moda perché sommerso da insulti sessisti, razzisti, ecc. e analizzare il perché di quegli insulti è una cosa, mentre difendere, giustificare o addirittura esaltare il ruolo di modella, il settore della moda, o persino i colossi di questo mercato significa avere perso completamente il senso delle cose, essere caduti nel calderone messo sul fuoco dal capitalismo e da queste stesse aziende.
Finisco scrivendo due parole sulla bellezza.
Non esiste una bellezza che sfidi i canoni o che sia anticonvenzionale perché per definizione la bellezza è un canone ed è convenzionale, altrimenti non staremmo parlando di bellezza. Un approccio veramente anticonvenzionale e di sfida dei canoni sarebbe quello di smettere di parlare di bellezza, smettere di aspettarsi dei canoni che facciano cambiare qualcosa, iniziare invece a rifiutare l’apparire, il confrontare.
Anche l’argomentazione secondo la quale questa ragazza sia comunque bella perché rappresenta altri canoni di bellezza rispetto a quelli a cui siamo abituati in occidente è una cretinata. Primo perché affermare una cosa del genere è un ossimoro: se ammetti l’esistenza di canoni diversi, dovresti aspettarti proprio che la gente giudichi in base al proprio e quindi ritenere del tutto normale che questa ragazza sia giudicata brutta in occidente (insulti a parte chiaramente). Secondariamente il dover difendere a tutti i costi la bellezza di questa persona non ha nulla a che fare con l’inclusione né con il fare qualcosa contro la misoginia o il maschilismo, significa solo aggiungere la propria voce al coro della chiesa dove si venera l’immagine e lo status quo, significa rientrare nel giochino delle aziende, annaspare nella melma del marketing e del capitalismo esattamente come la maggior parte della gente, con l’aggravante di pensare di stare facendo attivismo.